Un approccio interreligioso all’ambiente




Da diversi anni, la crisi ecologica ha superato i confini del dibattito scientifico per divenire una questione politica di primaria importanza, che coinvolge gli Stati e le istituzioni sovranazionali e chiama in causa la coscienza dei cittadini. Ma per motivare le persone e le società a optare per politiche di sostenibilità, bisogna fare ricorso anche alle loro risorse culturali, delle quali la fede religiosa è una parte fondamentale. Quali sono le idee che le religioni possono mettere in comune per sostenere una cultura ecologica?

Il dibattito sui cambiamenti climatici e sullo sviluppo sostenibile, proprio per il carattere globale delle questioni affrontate, ha chiamato in causa attori internazionali, quali gli Stati e le organizzazioni sovranazionali. In questo quadro, le religioni non hanno ancora trovato spazio come interlocutori nelle sedi ufficiali. A prima vista, questa esclusione sembra dipendere dal carattere strettamente tecnico dei dibattiti. Tuttavia c’è un interesse a coinvolgere i rappresentanti religiosi per almeno due ordini di motivi: le implicazioni morali delle questioni sul tavolo e il fatto che la maggioranza della popolazione mondiale organizza la propria vita sulla base di una visione religiosa del mondo. In altri termini, le religioni sono produttrici di senso e possono contribuire a motivare le persone a compiere scelte di giustizia. La loro rilevanza pubblica si basa dunque sul grande patrimonio simbolico e motivazionale del quale sono portatrici.


Sul rapporto fra religioni ed ecologia pesa l’eredità di una polemica iniziata nel 1967 da Lynn White, in un articolo di grande risonanza, nel quale lo storico di Princeton individuava le radici culturali della crisi ambientale nella visione biblica dei rapporti fra essere umano e natura, che egli accusava di antropocentrismo (cfr White 1967). Tuttavia, negli ultimi trent’anni, la riflessione portata avanti dagli studi sullo sviluppo ha stimolato anche l’interesse per il contributo positivo delle religioni. Gli studi hanno mostrato sia il complesso rapporto tutt’ora esistente fra politica e religione, sia il fatto che le religioni sono attori globali con un forte radicamento locale, capaci di influenzare la società in modo significativo (cfr Deneulin e Rakodi 2011).


Nel presente articolo cercheremo di mettere a fuoco i motivi che giustificano il contributo religioso al dibattito sulla sostenibilità. Si tratta di aspetti che coincidono, in maniera trasversale, con le dimensioni strutturali dell’esperienza spirituale e che permettono di gettare le fondamenta di un ethos ambientale interreligioso.


Chiavi interreligiose per la cura della casa comune

In questa sezione metteremo in evidenza dieci dimensioni, comuni alle varie tradizioni spirituali, che permettono di strutturare un’interpretazione comune fra le religioni del rapporto con l’ambiente. Si tratta della dimensione profetica, ascetica, penitenziale, apocalittica, sacramentale, soteriologica, mistica, comunitaria, sapienziale ed escatologica della relazione fra essere umano e natura.


a) Dimensione profetica. La denuncia dell’ingiustizia sociale legata ai processi di sfruttamento della natura è stata la porta d’ingresso nel dibattito ecologico per le grandi tradizioni religiose (cfr Tucker 2003). Nel caso delle religioni bibliche, questa denuncia ha un’assonanza con la tradizione profetica: come i profeti di Israele hanno smascherato le menzogne e le ingiustizie nei rapporti sociali del loro tempo, oggi questa denuncia torna attuale su vasta scala, estendendosi nel tempo alle generazioni future e nello spazio a quel “prossimo lontano” che subisce le conseguenze dell’uso indiscriminato delle risorse. I cambiamenti intervenuti nel corso del XX secolo, con la presa di coscienza delle minacce globali, come le armi di distruzione di massa, hanno esteso la comunità morale all’umanità intera. I nostri concetti di giustizia, di dovere e di responsabilità sono cambiati: non è più possibile applicare queste categorie, senza tenere conto delle conseguenze lontane, nel tempo e nello spazio, delle nostre scelte. La denuncia profetica assume pertanto una dimensione globale, indicando «l’intima relazione fra i poveri e la fragilità del pianeta» (Laudato si’, n. 16). L’intersezione fra questione sociale e questione ecologica è un punto forte delle dichiarazioni delle autorità religiose. È un approccio che deriva dall’esperienza di accompagnamento delle comunità marginali e che, per altro verso, corrisponde alle intuizioni centrali dell’ecologia politica. Le tradizioni religiose propongono un esercizio di “doppio ascolto” – della Terra e dei poveri, del presente e del passato, del contesto locale e delle dinamiche globali, dei segni esteriori e delle ispirazioni interiori – che integra le analisi tecniche. Questo approccio interdisciplinare fornisce oggi la struttura della denuncia profetica che anima l’enciclica Laudato si’ e altre analoghe dichiarazioni religiose1.


b) Dimensione ascetica. Tutte le tradizioni spirituali comprendono pratiche di semplicità volontaria, come il digiuno, orientate a purificare la relazione con Dio e con il prossimo. Esse acquistano, nel contesto attuale, una nuova importanza, alla luce del sovrasfruttamento delle risorse del pianeta. È proprio nella contestazione del consumismo e della “cultura dello scarto” che le religioni possono dare uno dei contributi più originali, chiamando i fedeli a uno stile di vita sobrio. La tendenza ad accumulare e a consumare senza limiti, tipica delle società più ricche, non solo è scandalosa in sé, davanti al persistere di ampie fasce di miseria, ma è anche il vettore culturale del degrado ambientale. Per contro, le tradizioni religiose hanno sempre visto nell’essenzialità della vita un elemento strutturale dell’esperienza spirituale. Una scelta particolarmente forte proviene dalla comunità indù, che giunge a proporre la rinuncia al consumo di carne come mezzo per contrastare il riscaldamento globale2. Tuttavia, bisogna anche evitare una strumentalizzazione in chiave meramente ecologica di prassi che sono finalizzate a liberare il credente dalle sue pulsioni disordinate e facilitarne la relazione con gli altri e con Dio. Pertanto papa Francesco propone il modello di san Francesco d’Assisi, per il quale «la povertà e l’austerità [...] non erano un ascetismo solamente esteriore, ma qualcosa di più radicale: una rinuncia a fare della realtà un mero oggetto di uso e di dominio» (LS, n. 11). In ultima analisi, la motivazione principale che sostiene l’ascesi è, per il credente, la ricerca spirituale, che implica il fatto di opporsi alla mercificazione di tutti gli ambiti della vita e all’uso strumentale delle relazioni con gli altri e con la natura.


c) Dimensione penitenziale. I profeti biblici hanno predicato il pentimento e la conversione del cuore per cambiare i comportamenti. Senza dubbio, questo invito non è esclusivo delle religioni monoteiste. Altre tradizioni, infatti, hanno elaborato pratiche penitenziali per redimere le colpe commesse contro gli altri e contro Dio. Possiamo includere la natura nella lista delle vittime del peccato umano? L’enciclica Laudato si’ offre una risposta, articolando il peccato nella rottura delle tre relazioni fondamentali: con il prossimo, con Dio e con l’ambiente; relazioni che si sono degradate «non solo fuori, ma anche dentro di noi» (n. 66). La crisi ecologica mostra tutta l’estensione della portata del peccato, che coinvolge chi è lontano, chi ancora non è nato, come nel caso delle generazioni future, e tutta la creazione vivente. È stato il patriarca ortodosso Bartolomeo I a utilizzare, per la prima volta, questo linguaggio duro parlando del degrado ambientale: «che gli esseri umani distruggano la diversità biologica nella creazione divina; che deteriorino l’integrità della Terra e contribuiscano al cambiamento climatico, spogliando il pianeta dei suoi boschi e distruggendo le zone umide; che inquinino l’acqua, il suolo, l’aria. Tutti questi sono peccati» (Bartolomeo I 1997). Ampliandosi il senso del peccato, anche le pratiche penitenziali devono essere rinnovate, per sviluppare nei fedeli la sensibilità a sentirsi coinvolti nella sofferenza delle altre creature.


d) Dimensione apocalittica. I movimenti ambientalisti hanno spesso evocato scenari futuri di distruzione: una strategia comunicativa che è stata da molti criticata come inefficace. Queste forme narrative incrociano un genere diffuso in tutte le tradizioni religiose: l’apocalittica. Ne è un esempio la Lettera dei Rabbini sulla crisi climatica del 2015, che ammonisce: «nel capitolo 26 del Levitico, la Torah ci avverte che se noi impediamo alla Terra di riposarsi, essa “si riposerà” comunque, a nostro danno, con la siccità, la carestia e l’esilio che trasforma tutti in rifugiati». È interessante notare che i racconti apocalittici ebraici e cristiani non intendono veicolare il pessimismo o la rassegnazione, ma additano soprattutto la possibilità di una vita trasformata, nell’importanza di dare un nuovo valore e un nuovo significato all’esistenza. Anche le tradizioni buddista e indù mettono in guardia dalle conseguenze “karmiche” delle nostre azioni, aiutando il credente a prendere coscienza delle conseguenze delle sue scelte. In sintesi, le narrative apocalittiche possono aiutare ad ampliare l’immaginazione morale e a percepire i valori in gioco.


e) Dimensione sacramentale. L’attitudine a cogliere nel mondo materiale i segni della presenza del divino contraddistingue numerose tradizioni religiose, inclusa quella cattolica, che nel sacramento vede un segno visibile della grazia. È così resa possibile una sacralizzazione della natura, che non scade nel panteismo, ma coglie nel mondo creato una mediazione della vita soprannaturale. In questa linea si esprime papa Francesco: «il mondo è qualcosa di più che un problema da risolvere, è un mistero gaudioso che contempliamo nella letizia e nella lode» (LS, n. 12). Distruggere la natura significa sopprimere tale mediazione del mistero di Dio.


f) Dimensione soteriologica. Dalle sue origini, il movimento ambientalista ha attribuito al rapporto con la natura una funzione terapeutica: gli spazi selvaggi o scarsamente antropizzati sono divenuti i nuovi luoghi di pellegrinaggio, nei quali la popolazione urbana può trovare riposo e ristabilire il proprio equilibrio psico-fisico. La società industriale, che si è lasciata alle spalle la lotta per la sopravvivenza, ha iniziato a percepire la natura non più come una minaccia ma come una risorsa di senso. Questa funzione estetica e terapeutica traduce, in termini laici, quella dimensione che le tradizioni religiose chiamano “salvifica”: la capacità di ricostruire le relazioni – con Dio, con gli altri – interrotte dal peccato, sanando il disordine interiore dell’uomo e ripristinando i giusti equilibri. Non è escluso, tuttavia, il rischio che la natura finisca per essere vista solo come risorsa estetica per l’essere umano. Questo riproporrebbe uno schema dualista e antropocentrico. La Dichiarazione buddista sul cambiamento climatico (2015) propone una visione più equilibrata: «dobbiamo svegliarci e prendere coscienza che la Terra è nostra madre e casa nostra, pertanto non possiamo tagliare il cordone ombelicale che ci unisce a lei. Quando la Terra si ammala, noi ci ammaliamo, perché siamo parte di essa». La dimensione sociale dei problemi ambientali non è sempre stata debitamente sottolineata nelle istanze ambientaliste (cfr Northcott 2015). In questo punto risiede, invece, un aspetto di grande importanza per le tradizioni religiose, che è il carattere comunitario della salvezza. Di fronte alle tendenze individualiste, le religioni affermano che la salvezza è un compito collettivo che conduce a una visione relazionale della società, nella quale il credente vive come membro di una «sublime fratellanza con tutto il creato» (LS, n. 221).


g) Dimensione mistica. Non è semplice definire che cosa sia la mistica. Più agevole è indagare gli scritti e le vite dei mistici per abbozzare i tratti di un tipo di esperienza spirituale, che non è appannaggio esclusivo di pochi eletti, ma una possibilità reale per ogni persona. Questa è la strada che segue papa Francesco, quando indica alcune figure di santi, soprattutto di tradizione francescana e benedettina, i quali hanno incarnato il modello di una vita riconciliata con Dio, con l’umanità e con la creazione: Francesco d’Assisi, Bonaventura, Benedetto da Norcia, ecc. Anche nelle biografie delle grandi figure religiose della storia spesso scopriamo il ruolo svolto dalla natura nelle loro esperienze spirituali, come l’illuminazione del Buddha avvenuta sotto un fico, o la caverna solitaria nella quale, secondo la tradizione islamica, Maometto ricevette la rivelazione del Corano. In molti casi, l’esperienza mistica fa scoprire, da un lato, l’armonia fra il Creatore e la creazione e, dall’altro, il modo nel quale il mondo sovrasta l’umanità; si manifesta così il carattere limitato della nostra esistenza, con la necessità di accettare un codice etico (la Torah o il Corano) o un processo di trasformazione personale (l’ottuplice sentiero buddista). Queste intuizioni – la coscienza dell’interdipendenza e della finitudine, la scoperta di una legge morale, la necessità di un cammino – sono vitali in una cultura prometeica segnata dall’esaltazione dell’autonomia individuale e dal disprezzo di ciò che è fragile. Soprattutto il senso spirituale dell’interconnessione fra i viventi fa eco al discorso ecologico contemporaneo, che trova uno dei suoi pilastri nell’interrelazione fra gli organismi. Il compito di diffondere e far assimilare i risultati delle ricerche scientifiche sulla sostenibilità richiede un’alfabetizzazione ecologica; tuttavia esige anche una spiritualità profonda, che sostenga l’impegno sociopolitico. I vari dualismi introdotti dalla modernità – fra spiritualità e lavoro, scienza e religione, res extensa e res cogitans, ecc. – hanno ostacolato l’emergere di visioni olistiche della realtà, così come il dialogo fra sapere scientifico e spiritualità. Torna allora d’attualità la tradizione monastica, che armonizza vita attiva e contemplazione. Il monaco vietnamita Thich Nhat Hanh ha proposto una sintesi, delineando i tratti di un modo di vivere consapevole, compassionevole e impegnato. Facendo dialogare la tradizione monastica buddista con le sfide ambientali di oggi, egli propone alcune “pratiche per una vita consapevole”, che possono aiutare a vivere in maniera più equilibrata e rispettosa della natura (Nhat Hanh 2008).


h) Dimensione comunitaria. La centralità riconosciuta a questa dimensione è un altro contributo delle religioni al dibattito ecologico. La cultura di oggi attribuisce grande importanza alle scelte individuali per trasformare la realtà, meno al senso dell’azione coordinata di una comunità. Vi sono buone ragioni per valorizzare la comunità come unità di analisi e di azione pratica. Anzitutto un motivo pratico: orientare lo sforzo del singolo, spesso disorientato dalla complessità delle scelte in gioco. Ma c’è anche una ragione spirituale: interpretare la propria vita in relazione ad altri; in tal senso, la comunità concreta media anche un senso appartenenza più vasto: «creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale» (LS, n. 89). È un modo nuovo di vedere il mondo. Infine, sentirsi parte di una rete di relazioni che supera i limiti di tempo e spazio e anche i confini di specie, aiuta a radicare nella persona un ethos della responsabilità. È anche una sfida pedagogica: percepire se stessi come parte di una «fraternità universale» (n. 228) è un’attitudine morale e spirituale che chiede di essere coltivata. Nella dottrina sociale della Chiesa questo senso di appartenenza sfocia nella cura del bene comune, cioè l’insieme delle condizioni che permettono il fiorire di una vita degna. Oggi questo concetto va compreso su scala planetaria. Quando papa Francesco dice che «il clima è un bene comune» (n. 23) segnala il fatto che gli equilibri naturali sono condizione di possibilità di qualsiasi altro bene umano.


i) Dimensione sapienziale. I greci distinguevano diverse forme di conoscenza: techne (conoscenza tecnica), phronesis (sapere pratico), episteme (scienza) e sophia (sapienza). Articolare queste dimensioni del sapere è fondamentale in un’epoca caratterizzata dalla frammentazione accademica e dalla saturazione informativa che spesso sfociano nella difficoltà di stabilire un dialogo sociale efficace. Emerge la necessità di ricostruire narrazioni collettive capaci di motivare le persone: in questo le religioni possono dare un contributo. Nel corso della storia, esse hanno offerto visioni del mondo in grado di creare coesione sociale intorno a un codice etico e a istituzioni politiche. Oggi appare chiaro che non possono assolvere questa funzione allo stesso modo. Tuttavia è possibile e auspicabile un dialogo fra scienza e religioni, che conduca a una visione globale di tipo sapienziale, nella quale la descrizione scientifica del reale sia compatibile con l’interpretazione religiosa.


l) Dimensione escatologica. Una delle critiche principali che il movimento ecologista ha rivolto alle religioni bibliche è l’eccessiva fiducia di queste ultime in una salvezza ultraterrena, che andrebbe a discapito dell’impegno nel mondo presente. Questa accusa non è del tutto priva di fondamento: ci sarà sempre la tentazione di una “fuga” religiosa che deresponsabilizza il credente rispetto ai suoi doveri civili. Non è un caso che alcune Chiese evangeliche e altri gruppi fondamentalisti di altre religioni abbiano posizioni scettiche o negazioniste sui problemi ambientali. Per questo motivo papa Francesco ha detto: «nell’attesa, ci uniamo per farci carico di questa casa che ci è stata affidata, sapendo che ciò che di buono vi è in essa verrà assunto nella festa del cielo» (LS, n. 244). Tale «attesa» caratterizza la condizione del credente, nella tensione fra la speranza futura e il compito presente. Secondo il detto dei gesuiti, si tratta di vivere e lavorare come se tutto dipendesse da noi, sapendo che tutto dipende da Dio. La speranza è, per la maggioranza delle religioni, un elemento costitutivo della fede. Per sostenerla, è utile riabilitare il potenziale dei riti religiosi, per “drammatizzare” l’amore per i poveri e il rispetto della creazione. La liturgia vive infatti una doppia dimensione: tende simbolicamente al futuro attraverso i segni del presente. Essa può «smascherare la logica perversa che promette il futuro consumando il presente. Un agire che mette a tacere il povero e distrugge le altre creature, nel nome di una crescita futura, è un falso sacrificio» (Jenkins 2013, 47-48). L’autentica speranza che viene dalla fede non allontana da presente: cerca invece di incontrare nuovi cammini di salvezza.


Dialogo interreligioso e crisi ecologica

Le tradizioni religiose sono entrate, negli ultimi cinquant’anni, in un ambito relativamente nuovo, quello della sostenibilità, intavolando un dialogo fecondo con la società civile. Un dialogo, sottolineiamo, dal tratto fortemente ecumenico e interreligioso. Senza averlo previsto, la questione ecologica ha permesso uno dei maggiori esercizi pubblici di teologia della storia recente. Pertanto, concludiamo questa riflessione affermando che le grandi tradizioni spirituali non solo saranno determinanti per affrontare la complessità degli obiettivi socioambientali, ma queste sfide condizioneranno anche l’evoluzione spirituale dell’umanità: «la risposta della religione alla crisi ambientale [...] è il fattore più importante per determinare se la religione sarà una parte vitale del futuro dell’umanità o se sprofonderà in una crescente irrilevanza» (Gottlieb 2006, 18).


Una versione più estesa dell’articolo è stata pubblicata con il titolo «Creer en la sostenibilidad. Las religiones antes el reto ambiental», in Cristianisme i Justícia, 212 (2019). Traduzione e adattamento di Mauro Bossi SJ.



Note

1. Il 17 e 18 agosto 2015 si è tenuta a Istanbul una riunione di circa 60 rappresentati del mondo islamico, provenienti da 20 Paesi. L’incontro si è concluso con la pubblicazione di una Dichiarazione islamica sul cambiamento climatico (cfr Howard 2015).

2. «A livello personale, possiamo ridurre questo stato di sofferenza cambiando i nostri stili di vita [...]. Adottare una dieta vegetariana è uno degli atti più incisivi che una persona può scegliere per ridurre l’impatto ambientale» (Bhumi Devi Ki Jai! A Hindu Declaration on Climate Change, 23 novembre 2015).



da aggiornamentisociali.it

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